L’altra sera, guardando il cielo notturno – cosa che non facevo da tempo- , mi sono messo a riflettere su quanto effettivamente possiamo considerare il cielo come una dimensione separata dalla terra e quanto invece siamo in grado di percepirlo “vicino” a noi.
A livello fisico effettivamente la separazione è effimera: parole come Spazio, Atmosfera, ecc, ci hanno ormai donato una sorta di “famigliarità” nei confronti della dimensione fisica del cielo ma, allo stesso tempo, lo hanno spogliato della sua ancestrale poesia.
Passando invece al lato culturale, e se vogliamo teologico, della questione: se si considerano i significati simbolici associati al cielo stesso nei secoli, certamente il cielo assume una dimensione a parte, rispetto alla terra. Il cielo diviene infatti la dimora del divino e della spiritualità intrinseca, in contrapposizione a una terra fatta di materialità imperfetta: il cielo è la perfezione e la meta ultima dell’anima.
Ora: andando a ragionare su questa netta separazione simbolica, è molto interessante portare avanti qualche considerazione mitologica. Molte delle mitologie di ogni parte del mondo, parlano di un vero e proprio atto di separazione fra il cielo e la terra, da parte del principio divino stesso: dio (o gli dei) separa il cielo dalla terra, scegliendo il primo come sua dimora e designando il secondo come dimora degli uomini ( e degli altri animali…). Qualche esempio?
Nel prologo del “Gilgameš”, grandioso poema epico sumerico, si tratta della separazione del cielo e della terra come un atto violento: “Quando il cielo fu separato dalla terra, e la terra fu separata dal cielo...”.
Per non parlare della mitologia giudaico – cristiana: nella “Genesi” sono citati esplicitamente la creazione del cielo e della terra, visti come due momenti diversi: Dio crea il cielo e la terra come due cose separate.
E si possono fare molti altri esempi.
Dobbiamo riappropriarci del cielo? In questa vita è possibile?
A livello fisico effettivamente la separazione è effimera: parole come Spazio, Atmosfera, ecc, ci hanno ormai donato una sorta di “famigliarità” nei confronti della dimensione fisica del cielo ma, allo stesso tempo, lo hanno spogliato della sua ancestrale poesia.
Passando invece al lato culturale, e se vogliamo teologico, della questione: se si considerano i significati simbolici associati al cielo stesso nei secoli, certamente il cielo assume una dimensione a parte, rispetto alla terra. Il cielo diviene infatti la dimora del divino e della spiritualità intrinseca, in contrapposizione a una terra fatta di materialità imperfetta: il cielo è la perfezione e la meta ultima dell’anima.
Ora: andando a ragionare su questa netta separazione simbolica, è molto interessante portare avanti qualche considerazione mitologica. Molte delle mitologie di ogni parte del mondo, parlano di un vero e proprio atto di separazione fra il cielo e la terra, da parte del principio divino stesso: dio (o gli dei) separa il cielo dalla terra, scegliendo il primo come sua dimora e designando il secondo come dimora degli uomini ( e degli altri animali…). Qualche esempio?
Nel prologo del “Gilgameš”, grandioso poema epico sumerico, si tratta della separazione del cielo e della terra come un atto violento: “Quando il cielo fu separato dalla terra, e la terra fu separata dal cielo...”.
Per non parlare della mitologia giudaico – cristiana: nella “Genesi” sono citati esplicitamente la creazione del cielo e della terra, visti come due momenti diversi: Dio crea il cielo e la terra come due cose separate.
E si possono fare molti altri esempi.
Dobbiamo riappropriarci del cielo? In questa vita è possibile?
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