Il tuo messaggio è arrivato nel mezzo della mattina di pioggia. Lo attendevo con una sicurezza quasi scientifica. Un semplice invito a cui non posso dire di no? O qualcos’altro? A volte mi sembra tutto un gigantesco scherzo, per vedere chi di noi due, per primo, inizierà a ridere. Oppure a piangere. Ma ti conosco così bene che ho perduto gli strumenti per decifrarti. E non c’è nessuno che mi possa aiutare in questa impresa. “Had me a trick and a kick and your message. You'll never gain weight from a doughnut hole. Then thought that I could decipher your message. There's no one here, dear. No one at all”. Solo davanti allo specchio osservo i miei occhi interrogare la mia immagine mentre mi infilo i jeans, quelli che ti piacciono tanto. Poi parto, non posso non partire. Il sole ha aperto uno squarcio nel cielo e la ferita sanguina di luce. Mi lascio trasportare fino a te e penso a questo novembre bugiardo, che ci illude con un pomeriggio mite prima di ibernarci l’anima. Ti incontro e osservo i tuoi occhi in attesa scrutare i miei. Vaghiamo per i viottoli del tardo pomeriggio. Nessun argomento sembra coinvolgerci. Nemmeno i miei racconti: le persone, i voli d’oltremanica, i pensieri pesanti come il piombo. Nemmeno i tuoi commenti fra l’ironico e lo sconsolato. Nemmeno le carezze assurdamente timide e fredde. Nemmeno il sesso, disperato e quasi artificiale. C’è qualcosa. Qualcosa che ti allontana da qui, da noi, da me. “Something's just, something's just keeping you numb”. Ceniamo quasi in silenzio. Mi osservi come fossi parte dell’arredo della stanza. Eppure non ho letto nella tua voce alcun tipo di ostilità, nei giorni scorsi. Eppure so che non puoi vivere senza di me. Eppure sei sempre il satellite che mi gira attorno instancabilmente. O ti stai trasformando in un sole? Non ci possono essere due soli nello stesso cielo, il fuoco ardente ci brucerebbe. “You told me last night you were a sun now with your very own devoted satellite. Happy for you and I am sure that I hate you, two suns too many, too many able fires”. In questi mesi hai abbattuto i miei muri di carta. Li hai incendiati con la passione e la dolcezza. Mentre io ne ho costruiti di nuovi, per non farti annoiare. Mai. Nelle ultime settimane sono stato lontano e ho lasciato che tu corressi senza sosta. Sempre. Ora ci sono i conti, da fare. Seduti senza parlare osservo le tue spalle arricciarsi. “You can tell me it's over, it's over. you can tell me over, over your shoulder”. E inizio a capire. Le parole non dette diventano reali, forse per la prima volta. Parli di dubbi che entrambi conosciamo ma che mai sono stati espressi. Parli del tempo che passa e che non va sprecato. Mi fai male. Vorrei abbracciarti per farti capire che ci sono e ci sono sempre stato, a mio modo. Ma riesco soltanto ad aggrapparmi alla tua ombra decadente, sdraiata sul pavimento. “And if I'm wasting all your time this time, maybe you never learned to take. And if I'm hanging on to your shade I guess I'm way beyond the pale”. Siamo passati oltre ma non c’è nulla di definitivo. Esco senza parlare. Convinto di sentire presto i tuoi passi rincorrermi. Ma fuori tutto tace. Soltanto la luna piena, che non avevo notato, mi osserva fredda come un cadavere. Il viaggio di ritorno sembra infinito. Aspetto un tuo segno e arriva. Mi dici “Fa conto che sia finita qui, ma ricorda che ti voglio davvero un gran bene”. Poi basta. Perché le tue parole, rotte dal pianto, non mi bastano per rendere tutto patetico?
Le parti in inglese sono tratte da “Doughnut Song” by Tori Amos