Ci ho messo tre settimane esatte dal giorno della tua morte per trovare il coraggio di descrivere cosa è successo. Qualcosa che ancora non intendo completamente, come fosse un orribile film che ho visto una notte in dormiveglia. E non capisco questo bisogno che ho dentro di scrivere di quei momenti tanto terribili quanto sacri. Forse semplicemente devo scrivere per non implodere di dolore. Oppure devo consegnare all’immortalità della scrittura, la dea di cui sono schiavo, le tue ultime ore. Pur consapevole dello strazio immenso a cui sto per sottopormi. Quella mattina del 7 febbraio ero con te nella tua azzurra stanza di ospedale. Dopo diversi giorni di ricovero la tua situazione peggiorava, invece di migliorare. Rifiutavi il cibo e le macchine per respirare. Le tue vene erano sempre più stanche di ricevere affluenti chimici di presunta salvezza. La stanchezza la si leggeva nei tuoi occhi e nella forza sempre più debole con cui mi stringevi la mano. Sono rimasto tutta la mattina. Pur se osservandoti dormire per la maggior parte del tempo. Percepivo con dolore immenso il tuo essere sempre di più in un altrove in cui io non ero degno di raggiungerti. Ero con te per il pranzo e come al solito hai rifiutato il cibo. Eppure tu non volevi andartene, io lo so. Tu me lo hai detto. Più volte. Tu eri una combattente. Ma forse stavi accettando pian piano di avere perso la guerra. Nelle ore successive ti ho vista stare male e fare una fatica immensa a respirare. Nella mia incapacità di gestire il tuo dolore avrei voluto essere al tuo posto. Io che sono così avvezzo al dolore. E merito infinitamente meno di te. Eppure quel calvario era tuo e io potevo solo starti accanto. Eppure quando ti chiedevo come stavi rispondevi “non c’è male”, dinnanzi all’opposta evidenza. Non un solo lamento verbale da parte tua. Soltanto verso le 3 del pomeriggio ho accettato di cedere il mio posto di veglia accanto a te, a mio padre, tuo figlio. Di cui spesso pronunciavi il nome. Ti ho lasciato mentre risposavi, con una goccia di tranquillità nel cuore. Nemmeno ricordo come ho passato quel pomeriggio. Sapevo di stare trascorrendo solo una piccola tregua prima di un dolore più grande. Sono quelle sensazioni profonde che ti attanagliano il cuore inspiegabilmente ma che non mentono mai. E verso le sette è arrivata la telefonata che temevo. Da mia sorella, tua unica altra nipote. Tu stavi peggiorando. Sono di nuovo corso all’ospedale. E tu dormivi sedata dai farmaci. Ti ho visto e ho compreso che era l’inizio della fine. E mi sono sentito svuotare da ogni energia e speranza come se improvvisamente fossi stato cancellato dal cosmo con un folata di vento. Ho visto la mia immagine riflessa nello specchio della debolezza umana, dove nemmeno una fede profonda può davvero costituire uno sfondo appropriato: si scorge solamente il vuoto. L’impotenza e il dolore sono entrati nel mio stesso respiro. Mentre io ascoltavo il tuo, debole, faticoso, misero. Avrei voluto strapparti dal tuo male e fare della sofferenza solo una brezza da soffiare via lontano, oltre le cime che scorgevo dalla finestra nell’imbrunire. Ma la mia miseria di uomo trafitto dalle spine della consapevolezza, altro non ha provocato se non un continuo e sottile pianto che mi ha bagnato fino il collo. Il mio volto immerso nel liquido salino del mare dello strazio. Eppure per nessuna ragione al mondo ti avrei lasciato lì. Volevo esserti accanto. Ogni tua espressione era per me preziosa come la vita. La poca vita che ancora scorreva in te. Ti ho preso la mano e ho atteso con te. Nel silenzio. Le macchine fredde comunicavano la matematica della vita e della morte con la loro asettica precisione. Le osservavo come un bambino incredulo e spaventato. Sapevo che quei numeri e in quelle linee stava il codice dove leggere il tempo in cui tu saresti stata ancora qui. Con me. Con noi. In questa dimensione terrena. Intanto le ore passavano e il tuo respiro si faceva sempre più lieve. D’un tratto è divenuto solo un sottile soffio e il tuo viso ha assunto un’espressione più serena. Insieme con mio padre e mia sorella, presenze meno fragili di me e a cui tentavo disperatamente ma inutilmente di aggrapparmi, abbiamo deciso di chiamare un sacerdote per l’Estrema Unzione. Solo un simbolo sacro per chi per tutta la vita ha creduto a quel tipo di simboli. Un modo per rendere il momento della fine sacrale anche visivamente. Nulla di più che un modo per confermare la morte delle speranza, in fondo. Mia zia, tua figlia, è passata, ma non ha avuto la forza di rimanere. Ti ha salutato con dolcezza ed è uscita nel silenzio. La notte proseguiva con una lentezza inaudita. Mai avrei pensato che il tempo potesse avere tale capacità di dilatazione. Oltre che la più brutta, è stata la notte più lunga della mia vita. Se mai dovessi proporre una metafora personale della discesa di Orfeo negli inferi, parlerei di questa notte. Eppure anche il tempo della veglia cede lentamente ma inesorabilmente alla morte. Alle ore 2,16 del già 8 febbraio il tuo cuore si è fermato. Ho visto mia sorella alzarsi e darti un bacio sulla fronte piangendo e dicendo “ciao nonna”. Io mi sono sentito spaesato e ho continuato a stringerti la mano, come incredulo. Dopo qualche secondo il tuo cuore ha ricominciato a battere. Non era finita. Non ancora. Ogni combattente riserva sempre un ultimo colpo. Sono I miracoli della vita e della morte, quelli che noi non potremo mai comprendere davvero. E così è riniziato un sottilissimo respiro. Lo strazio dentro di me ha subito un’implosione, come quella di una sottilissima speranza che tenta di nascere ma viene abortita poco dopo il concepimento. E i minuti successivi sono stati di pura angoscia e rassegnazione. Tu distesa nel letto con il viso inclinato sulla sinistra. Io che ti stringevo forte la mano destra. E poi alle 2,53 è arrivato l’ultimo respiro. Leggermente più forte dei precedenti. E il cuore si è fermato definitivamente. Ho avuto l’impressione che la tua mano stringesse la mia con una forza leggerissima. Forse solo una patetica illusione di un tuo saluto finale. In fondo, come potevo pretendere altro da te? Dopo quel respiro la matematica della morte ha risolto l’equazione e ci ha comunicato che era finita. Il mio pianto è diventato più caldo. Le lacrime bollenti mi sono arrivate fino al torace. Ti ho stretta e più forte e ti ho baciata ma già sentivo che non eri più lì. Ho avuto l’impressione che ci fosse un mezzo sorriso abbozzato sul tuo viso dopo l’ultimo respiro. Non è stato sufficiente per diminuire nemmeno di una goccia la marea crescente e nera del dolore che mi invadeva dentro. Ti ho guardato fino a che mia sorella non ti ha coperto il viso con un lenzuolo bianco. E quello è stato il climax della mio strazio. Lì improvvisamente ho realizzato tutto. Che tu non c’eri più. Che non ci saresti più stata. Che non ci sarebbe stato un ritorno. E il pianto si è fermato di colpo. La mente ha congelato l’emozione in attesa di pagare tutto più avanti. Pagare la perdita immensa e il vuoto enorme. Capendo che assieme a te se ne era andato un pezzo grande di me. Di quello che sono stato e che mai più non sarò. Poi ci hanno fatto uscire dalla stanza. Mi sentivo un corpo vuoto. Mi sono lasciato trasportare da mio padre e mia sorella come un automa. Nei giorni successivi ho osservato per ore il tuo cadavere ma non ti ho riconosciuto più. Ho atteso con presunzione e disperazione un tuo segnale ma non è arrivato. E anche il funerale è passato su di me come una pioggia silenziosa su un mare in burrasca. Ricordo solo l’organo sgangherato della piccola chiesa tentare di piangere assieme al mio cuore durante l’Omelia. E la lunga processione a piedi verso il cimitero sotto una gigantesca tormenta di neve. Le lacrime bianche del cielo per te. Anche adesso che scrivo, qui nelle tue stanze e tra le tue belle montagne che ora paiono così tristi, non riesco ancora a rendermi conto che tu non ci sei più. Sono lontano dall’accettare che non rivedremo assieme le prime viole che già iniziano a spuntare tra le siepi. Ora che l’inverno è finito, assieme alla tua lunga vita. Ma l’immensità della tua eredità di vita, morirà solo col mio ultimo respiro. “Oh grandmother.. How I miss you. Under the earth wish I was with you to talk to you, to talk to you. If I lay on the earth, could you hear? Oh grandmother I'm so lonely…”.
Le parti in inglese sono tratte da "To talk to you" by P.J.Harvey